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RobertWilson©Hsu-Ping

Intervista a Robert Wilson

Questa non è la prima volta che sta dietro a una telecamera. Mi può raccontare qualcosa dei suoi primi esperimenti negli anni ’70?

In realtà avevo già realizzato un film a metà degli anni ’60, “The House”, ma non pensavo alla pellicola come al mio mezzo espressivo principale. Negli anni ’70, con l’avvento del video, ho cominciato a sperimentare con questa tecnologia che ha il grande vantaggio dell’immediatezza. In quegli anni ho creato per la televisione tedesca ZDF una serie di lavori chiamati “Video 50” che andavano in onda alla fine dei programmi intorno alla mezzanotte a sostituzione delle schermate fisse del monoscopio. Mi piaceva l’idea che andassero in onda in continuazione e in loop.

Lei è un pittore e un artista visivo e nella sua carriera ha sperimentato diversi linguaggi espressivi. Tuttavia, la maggior parte del suo lavoro è legata al mondo del teatro, alle installazioni e alla performance. Qual è il suo rapporto con il film? A differenza dello spettacolo dal vivo, cosa la attrae della tecnologia del video?

Una performance si svolge sempre e solo in un preciso momento. Con qualsiasi registrazione visiva, si ha la possibilità di rivedere e modificare le immagini, i colori, addirittura l’illuminazione. Il lungo ed intenso lavoro di post produzione mi permette di aggiungere la colonna sonora, di correggere i colori, di creare un loop perfetto e così via. In passato ho lavorato relativamente poco con il video perché la tecnologia non era ancora in grado di raggiungere il livello di precisione e perfezione che stavo cercando. E’ incredibile quello che si riesce ad ottenere oggi con l’alta definizione. Ogni mio lavoro, qualunque sia il mezzo espressivo che adopero, è estremamente preciso.

In che modo i Video Portraits possono essere collegati alle sue regie teatrali?

Durante una conferenza qualcuno chiese ad Albert Einstein: “Signor Einstein può ripetere quello che ha appena detto?” Einstein rispose “Non c’è bisogno che io ripeta quello che ho detto perché si tratta sempre di un’unica idea, di un unico pensiero”. Io non faccio distinzione tra teatro, fotografia e architettura e ritengo che ciò che è possibile sul palcoscenico o nel video, nella pittura, nella danza, nel design, nella musica, o nella scultura può essere considerato come un’unica cosa. In un certo senso questi videoritratti danno forma anche al mio lavoro teatrale, perché non c’è una reale differenza. Se con il video si tende a lavorare con la mezza figura e il primo piano in teatro normalmente ci si confronta con un proscenio e un’inquadratura ampia. Ma io ho rotto queste regole nel teatro, e anche nei video dove divido lo spazio nei tre modi tradizionali: ritratto, paesaggio e natura morta.

Il campo tradizionale della ritrattistica appartiene alla pittura e alla fotografia. Una delle sue principali caratteristiche è l’immobilità. Cosa aggiunge il movimento al ritratto?

Non sono convinto che la ritrattistica tradizionale sia statica. Molti grandi ritratti suggeriscono movimento, sia nel volto che nell’immagine totale. Basti pensare all’agitazione presente in un autoritratto di Rembrandt. Ma è vero che il tempo ha un ruolo diverso nei miei videoritratti. Sono dei loop che si ripetono continuamente, senza inizio né fine. Hanno uno spazio e un tempo propri.

In termini di produzione, cosa viene prima il soggetto o gli attori? Come è stato lavorare con attori cinematografici rispetto a quelli teatrali?

Il progetto per ogni ritratto dipende da una varietà di circostanze e metodi di lavoro. A volte riprendo un mio lavoro precedente, oppure nell’osservare una fotografia di una persona ne può scaturire un’immagine o un’idea, altre volte può nascere da una ricerca sulla vita del soggetto e quindi il progetto viene costruito lentamente. Posso ispirarmi ad un’opera d’arte, come nel caso del dipinto di Rembrandt su cui è stato modellato il ritratto di Robert Downey Jr., o a un film storico piuttosto che a una pubblicità. Altre volte abbandono l’idea originale nel momento stesso in cui incontro la persona in studio e nasce una nuova idea. Il progetto è una cosa, un punto d’inizio ma lavorare con il soggetto sotto le luci e le telecamere crea qualcosa di diverso. E poi il lavoro di montaggio crea ancora qualcosa d’altro. Lavorare con attori cinematografici è come lavorare con attori di teatro; un meccanico può avere più presenza in una particolare ripresa di un grande attore di cinema che recita la stessa scena. Ogni persona è diversa dalle altre e richiede qualcosa di speciale.

Perché ha scelto celebrità, personaggi regali e animali per i suoi ritratti?

I primi ritratti che ho girato erano di personalità note al grande pubblico, superstar, gli dei del nostro tempo. Ma ho sempre voluto includere altro – un uomo della strada, un animale, un bambino o una persona qualunque. Questa serie di videoritratti vuole essere un documento del nostro tempo.

Qual è il suo ritratto preferito?

Non c’è. Per me questi ritratti sono come delle finestre. Mostrano scene diverse e possiamo decidere di soffermarci davanti ad una più a lungo che a un’altra. Sono come dei piccoli mondi racchiusi su se stessi e noi li guardiamo dal nostro mondo. Contengono elementi di storia dell’arte, di cultura popolare ma non sono parte del nostro quotidiano.

Non so quale sarà il futuro dell’arte, ma so che quello che rimane del presente sarà la sua arte. Basta pensare al fatto che la maggior parte di quello che sappiamo delle antiche culture ci arriva dal patrimonio artistico che queste hanno lasciato. Ogni epoca trova il suo linguaggio per esprimersi. Può essere la ceramica, la scultura del legno e della pietra, il tessuto, la pittura, il film , opere in digitale che ancora ignoriamo. Non c’è un unico linguaggio espressivo e non c’è un unico futuro.