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Poter dire di aver vissuto. Un laboratorio di ricerca sulla felicità attraverso l’arte (febbraio-giugno 2011). Una nuova esperienza di “museum theatre”.

“I musei devono accogliere il grido dell’uomo moderno che vuole vivere una vita migliore e conoscere la verità”

(J. Kinard, Intermediari tra il museo e la comunità, 1971).

Il video, suddiviso in tre parti, documenta sei interventi teatrali creati dai partecipanti al laboratorio "Poter dire di aver vissuto" e presentati a un pubblico ristretto l’8 giugno 2011. Il laboratorio è stato un primo esperimento che Palazzo Madama e l’attore e regista Claudio Montagna hanno sviluppato per indagare le potenzialità e gli spunti che il teatro offre nella narrazione e nella comprensione dell’arte figurativa, in particolare dell’arte antica.

Da alcuni anni Palazzo Madama porta avanti una riflessione sull’uso del teatro all’interno del museo, e in diverse occasioni ha proposto al pubblico percorsi teatrali come momento di edutainment, attività cioè capaci di unire svago e apprendimento grazie all’uso di un linguaggio duttile in cui l’azione, il gesto, la parola (ma anche la danza e la musica) suscitano emozioni, sviluppano l’immaginazione e si ancorano alle persone (forse) con maggior efficacia di quanto possa fare l’insegnamento o l’acquisizione tradizionale del sapere.

Oltre all’obiettivo comune alle precedenti esperienze di verificare il teatro come strumento di mediazione, in grado di proporre una narrazione più comprensibile dell’arte figurativa, con il laboratorio teatrale “Poter dire di aver vissuto” ci si è posti alcuni obiettivi particolari. In questo caso infatti il museo intendeva:

- indagare le reazioni, gli atteggiamenti e le sollecitazioni dei visitatori di fronte alle opere del museo;

- sperimentare nuove forme di conoscenza e di mediazione del patrimonio per progettare nuovi percorsi di conoscenza e interpretazione;

- sperimentare forme di narrazione in cui emergesse l’unità delle arti e dei loro linguaggi;

- rendere il museo un luogo di scambio e di incontro tra cittadini;

- offrire occasioni di crescita e cambiamento in cui partecipanti acquisissero strumenti di interpretazione dell’arte da applicare anche in altre situazioni;

- valorizzare la costruzione di significato da parte dei visitatori;

- far affiorare nei partecipanti la consapevolezza del ruolo benefico che l’arte nella sua totalità (arte figurativa e performativa) apporta alla vita di ognuno, soprattutto in un periodo di grave crisi economica e di attacco al patrimonio culturale;

- condividere con la cittadinanza i percorsi elaborati;

- fornire al personale del museo un’occasione di confronto con un pubblico selezionato e predisposto al dialogo circa la percezione dell’arte, dei suoi valori e dei suoi linguaggi al fine di migliorare le forme di comunicazione con i propri visitatori;

- attribuire ai partecipanti il ruolo di “audience-as artist”, cioè di protagonisti e autori principali nel processo di creazione dei contenuti, secondo la visione sviluppata tra gli altri da Alan Brown e Jennifer Novak-Leonard nel rapporto Getting in on the art, che permette di andare oltre la tradizionale visione del pubblico inteso come “utente passivo” e/o semplice spettatore (http://irvine.org/publications/publications-by-topic/arts/getting-in-on-the-act-report).

- fornire una documentazione precisa del percorso di ricerca in previsione di future esperienze e in modo da condividere i risultati con altre istituzioni culturali.

Per ultimo, l’obiettivo più ambizioso, presente nel titolo del laboratorio, intendeva verificare se l’arte, oltre a riflettere valori e aspirazioni della società che ha di volta in volta prodotto forme figurative diverse, possa anche essere uno strumento di felicità per le persone di oggi, grazie alla capacità dell’opera d’arte di interagire con lo spettatore e di porre domande risvegliando un patrimonio di emozioni, sentimenti ed esperienze accumulati nel corso dell’esistenza di ognuno.

Il laboratorio si è svolto a Palazzo Madama in 15 incontri in orario serale, tra febbraio e maggio 2011, con esercitazioni, lezioni frontali e interventi dei curatori del museo. Al progetto hanno partecipato 20 persone, diverse per età, attività professionali e formazione teatrale alle spalle (che non era peraltro richiesto né costituiva criterio di preferenza).

La proposta di un laboratorio così particolare e inedito rispetto alla consueta programmazione di Palazzo Madama è stata accolta con grande entusiasmo e interesse, al punto da rendere necessari colloqui individuali per formare il gruppo di lavoro, illustrare ai candidati obiettivi e metodologia, e dichiarare esplicitamente il carattere sperimentale dell’esperienza.

I partecipanti sono stati chiamati a tradurre in “istantanee teatrali” la storia, le forme e le suggestioni evocate da quattro opere del museo scelte dall’équipe di progettazione e tutte diverse per tecnica, materiale e epoca di realizzazione: le geometrie di vuoti e pieni di un capitello medievale chiamato a re-interpretare i modelli classici dell’ordine corinzio; lo sguardo indagatore del misterioso e sconosciuto uomo ritratto da Antonello da Messina nel 1476; una caraffa decorata, frutto delle sperimentazioni degli artisti del Rinascimento toscano in gara con la celebre porcellana orientale; e infine la ricerca cromatica e materica di una scultura barocca in legno e avorio, raffigurante il dramma dei sentimenti umani e della giustizia terrena incarnati nella scena del Giudizio di Salomone.

La scelta di una sola opera da elaborare e presentare in forma teatrale è stata ottenuta attraverso un percorso progressivo di selezione e distillazione con questionari, esercizi e interventi di approfondimento dei curatori del museo e del regista.

E’ interessante notare come rispetto all’inizio del laboratorio, nel corso delle 15 settimane l’89% dei partecipanti ha cambiato l’opera verso cui si sentiva inizialmente più attratto (solo l’11% è rimasto fedele al “primo amore”, pari a 2 persone): se a febbraio, all’inizio del percorso, il ritratto di Antonello da Messina raccoglieva il 67% dei voti di preferenza e nessuno aveva scelto il Giudizio di Salomone di Simon Troger, a giugno la situazione si era ammorbidita, confermando l’effettiva nascita di un “dialogo” e di un percorso di conoscenza e interrogazione tra l’opera e il partecipante al corso:

Il laboratorio si è rivelato un’utile sfida anche per il personale del museo che nell’interpretazione del fatto artistico ha dovuto associare i consueti strumenti della disciplina, basati sull’indagine stilistica, storica e critica, a un atteggiamento nuovo di ascolto rispetto alle esigenze di comprensione e conoscenza da parte dei partecipanti: è stato fondamentale provare a capire le intenzioni profonde dell’artista (e della collettività di riferimento), modellare e moderare il linguaggio, focalizzare la visione su una comprensione più universale e antropologica del fenomeno artistico.

La presentazione dei lavori agli ospiti esterni è stata strutturata come un percorso itinerante, una “via artis” lungo le diverse sale del museo, in modo da mantenere il contatto visivo e fisico con l’opera da commentare. La valutazione richiesta alla fine della serata a partecipanti e spettatori attraverso un breve questionario di verifica ha messo in luce alcuni punti di forza e ovviamente alcuni aspetti di debolezza del progetto.

Rispetto a un generale apprezzamento e soddisfazione dell’iniziativa, tra i partecipanti al corso le criticità sono state: il desiderio di avere maggior disponibilità di tempo per sviluppare il progetto (“maggior tempo avrebbe potuto probabilmente dare più opportunità di creare un buon clima di gruppo e rapporto con il conduttore del laboratorio”); un certo squilibrio tra pratica e teoria a favore di quest’ultima; e un ruolo più direzionale da parte del regista.

E’ diffusa anche l’idea che le opere possano “parlare” al visitatore e che sia necessario creare una dimensione di silenzio che aiuti l’ascolto: “mi ha aiutato a capire come contemplare le opere e soprattutto a non giudicare ma a lasciare che siano queste a parlare”; “dando un significato teatrale alle emozioni suscitate dalla pittura, dalla scultura, ecc.”; “attraverso una percezione diversa e una chiave di lettura che collega le opere tra loro”; “in maniera diversa, con un approccio più psicologico e sentimentale che tecnico”; “a “vedere” meglio un’opera”; “mi ha portato a leggere molto su Antonello da Messina”; “immergendomi con tutto il mio sé ed i miei canali percettivi”; “mi ha aiutato a conoscere un modo diverso di conoscere l’opera per entrare nel suo mondo e viverla”; “a vivere dentro ad un museo”; “viaggiando nei retroscena”.

Alla domanda di sintetizzare con una parola l’esperienza i partecipanti hanno risposto facendo riferimento a diversi ambiti semiotici:

- interessante; innovazione; novità; nuovo; sentimenti in immagine;

- smascheramento; scoperta; ricerca come studio / osservazione / ricerca del significato delle cose;

- esperienza poliedrica

- luminosità

- futuro

- un’esperienza di vita; teatro dell’interiorità;

- sudore

- vibrante e bellissimo!

- una meravigliosa occasione perduta.

Al laboratorio hanno partecipato 20 persone, con un’ampia preponderanza di donne (75%), a ulteriore conferma dello slancio tipicamente femminile verso esperienze di formazione e di confronto interpersonale. Rispetto alle attività professionali e all’età dei partecipanti vi è stata una grande eterogeneità, con una maggioranza di studenti (35%) e un’età media attestata sui 36,5 anni: questi ultimi due elementi indicano che il progetto è riuscito a incontrare l’interesse di un pubblico diverso da quello che tradizionalmente frequenta il museo e aderisce alle attività proposte.

Da parte del gruppo di lavoro, la valutazione ha portato ad evidenziare la necessità di strutturare maggiormente la parte tecnica del laboratorio.

In generale, quasi tutti i partecipanti hanno colto la finalità del laboratorio anche se nella presentazione non era stata forse proposta in termini chiarissimi. Si sono resi disponibili a compiti apparentemente assurdi che sono stati proposti come modelli, e a passaggi non sempre logici, spesso destabilizzanti, cogliendone la reale funzione di stimolo: sia alla percezione del contenuto delle opere scelte sia all’ideazione della parte poetica e teatrale. La maggior parte ha acquisito l’idea di inventare un proprio teatro per potersi fare mediatore per l’accesso alle opere da parte di altre persone, rinunciando così a una più rassicurante, ma non utile per questo, idea di teatro canonico, accademico o di altrui ricerca.

E’ proprio su questa disponibilità alla rinuncia, alla creazione di un vuoto, oltre a una gran voglia di sperimentare e di riempire quel vuoto con informazioni ed esperienze nuove, da parte della maggior parte dei partecipanti, che sembra di poter basare una valutazione positiva del lavoro svolto. Quel vuoto è stato di volta in volta colmato da piccole creazioni originali e mirate di notevole qualità. Ogni volta che il gruppo elaborava qualche prodotto artistico, si notava quanto fosse presente e crescente una volontà di farsi passaggio e mediazione. Prima per se stessi nei confronti delle opere, allo scopo di entrarci davvero, conoscerle in profondità, quasi sprofondare nella loro bellezza per poter scoprire e valorizzare la propria. Poi per aprirle e renderle raggiungibili da altri. Aprirle, non spiegarle. Dunque era chiaro che si diventava ponti e non guide o ciceroni.

Ponti da attraversare per raggiungere liberamente la meta, e non ponti da contemplare per la qualità estetica della loro architettura.